Fra questi, nella mia lista personale, si trova la rassegna
teatrale Pirandelliana, che si tiene ogni anno a Luglio, ideata e animata da Marcello
Amici.
Ci sono due elementi che rendono la Pirandelliana degna di
attenzione: innanzitutto il sito scelto, il terrazzo affacciato alle spalle
della Basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino da cui è possibile
godere di una vista unica al mondo, aspettando che il sole scompaia e il chiaro
buio dell’estate romana permetta alla finzione scenica di avvolgere
languidamente il pubblico. Lo sguardo di Roma sembra accomodarsi fra le sedie a
osservare fra le scene che prendono vita contro il muro esterno della chiesa.
La seconda ragione per frequentare la Pirandelliana sta
nell’opportunità – oramai altrimenti rara – di assistere a una messa in scena
rispettosa delle opere di quello che forse è il più grande drammaturgo
italiano. Pirandello, che conosceva l’animo umano per esperienza, ha scritto
alcune delle pagine più profonde della letteratura italiana: una sua opera, ben
rappresentata, è in grado di scombussolare le viscere fragili dell’uomo
contemporaneo in maniera più utile e sana di quanto sia in grado di fare
qualunque psicologo, che l’animo umano lo conosce s
olo sui trattati.
In questo senso Amici ha sempre rappresentato una garanzia:
pur nella povertà scenica giustificata dal luogo inconsueto e sostituita dalla
naturale scenografia del paesaggio urbano, le scelte registiche di Amici si
sono rivelate quasi sempre rispettose della lettera e della natura dello
scritto, spesso altrimenti stuprato e umiliato.
Quest’anno, invece, anche Amici ha ceduto. Avendo deciso di
mettere in scena i “Sei personaggi in cerca di autore”, il regista si è
infilato forse inconsapevolmente nella trappola tesa dall’autore. L’opera
racconta il surreale arrivo, sul palco di un teatro dove si prepara la messa in
scena di una commedia, dei personaggi in carne e ossa di un’altra opera,
condannati a vagare nella “trappola” di una vita di finzione dall’ostinata
resistenza dell’autore, al quale si presentarono e che non volle fissarli in un
testo.
Il gioco che si crea fra gli attori, che si cimentano come
possono a interpretare le tragedie proposte dai personaggi, e i personaggi
stessi, condannati a viverle in un’eternità angosciante, costringe lo
spettatore a una violenta ridiscussione della propria condizione, che lo porta
a domandarsi quale vita sia la più vera, se quella dietro le “maschere” degli
attori professionisti o quella dei personaggi, che le maschere non possono
toglierle. Nell’angosciosa ripetizione del dramma, i personaggi denunciano la
condanna di ciascuno di noi, costretto dalle circostanze alla recita in ruoli vergognoso,
e dai quali quasi nessuno riesce a liberarsi.
Al tempo stesso, su un piano più letterario, Pirandello
condanna l’ingerenza dei registi, che si frappongono artificiosamente fra
autore e spettatore con tutto il loro carico di ignoranza da autori mancati:
incapaci di scrivere un’opera, stuprano e fanno propria quella di qualcun
altro, cancellandone spesso ampie sfumature essenziali.
Non a caso Pirandello non lascia nulla al caso: nello
scrivere i propri drammi indica con una precisione maniacale tutti i dettagli
della scena da preparare, il colore delle pareti, la disposizione degli
oggetti, l’orientamento delle stanze… Una precisione che non è virtuosismo
letterario, ma al contrario l’essenziale contorno delle cose, fondamentale
perché le stesse trasmettano il sapore che l’autore – unico monarca del teatro
– ha voluto trasmettere, suggerito a sua volta dalla voce stessa dei
personaggi. In questo senso una parete gialla piuttosto che bianca è in grado
di cancellare o modificare radicalmente il contesto emozionale dell’opera,
trasmettendo sentimenti e sensazioni ad essa alieni.
Questa volta Amici è caduto in questo tranello. Sopraffatto dal
delirio di onnipotenza del regista – il cui sguardo è offuscato dai risultati
di botteghino – ha così deciso di operare tali e tanti tagli alla scena e
all’opera, che l’insieme ne è risultato impoverito, imbastardito, banalizzato
da una non richiesta ingerenza.
Sia nelle scene iniziali, infatti, sia nella conclusione,
sia nella generale resa scenica dei personaggi coperti da maschere bianche, o
nell’apparente (e scontata) omosessualità del primo attore, la regia ha deciso
stavolta di interpretare liberamente ciò che è espressamente non
interpretabile, se non dal singolo rapporto fra autore e spettatore: rapporto che
non prevede libertà, perché deve rendere conto soltanto alla verità delle cose.
Ad Amici, e attraverso lui a tutti i registi, consiglio una
più umile fedeltà alla lettera del testo, finanche nelle virgole: il regista di
un’opera di Pirandello non può fare scelta migliore che porsi, come il
pubblico, a guardare e ad ascoltare, astenendosi dall’intervenire. O finirà per
dare ragione a quell’autore che decise di resistere all’insistenza dei
personaggi e di non mettere in scritto il loro dramma, per non lasciarlo finire preda
dell’arbitrio del primo venuto.
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