
martedì 26 dicembre 2006
Avanti così Etiopia!

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lunedì 11 dicembre 2006
Eutanasia e libertà

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martedì 28 novembre 2006
Mamma li Turchi

"Con fiducia mi pongo sulle orme dei miei venerati predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II; ed invoco la celeste protezione del beato Giovanni XXIII, che fu per dieci anni Delegato Apostolico in Turchia e nutrì per quella Nazione affetto e stima. A tutti voi domando di accompagnarmi con la preghiera, perché questo pellegrinaggio possa portare tutti i frutti che Dio desidera."
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domenica 19 novembre 2006
Ministro della Morte

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lunedì 13 novembre 2006
12.11
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giovedì 19 ottobre 2006
La resa della civiltà

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lunedì 25 settembre 2006
Perché Catone il Censore
In una parola significa investire i propri talenti nella crescita di tutti, anche a scapito della propria.
Questa è la Politica.
Catone il Censore nasce a Tuscolo nel 234 a.C. da una famiglia di agricoltori. Uomo integerrimo si scagliò per tutta la vita contro le tendenze ellenistiche che andavano diffondendosi a Roma, giudicandole perverse e corrotte. Appena eletto censore impose una forte tassa sugli oggetti di lusso. Cacciò poi dal Senato parecchi membri che conducevano una vita disonesta e colpì in vario modo magistrati corrotti e cittadini indegni. Era semplicemente un uomo dotato di un enorme senso morale, orgoglioso della propria tradizione romana e dei costumi dei padri, la cui superiorità difese contro l'immoralità degli stranieri greci, dalla cui contaminazione culturale voleva salvare Roma.
Perseguitato dagli avversari politici (in particolare dalla potente famiglia degli Scipioni) fu condotto in tribunale per più di 150 processi. In tutti questi scelse di difendersi da solo e da tutti uscì assolto. Come ha fatto? Semplice: era innocente.
È uno dei tanti giganti che la nostra amata e unica terra ci ha donato e che noi abbiamo dimenticato: un esempio di quel carattere romano, latino e italico che crediamo inimmaginabile nella nostra epoca, ma che appartiene - per quanto nascosto - alla splendida razza dei figli di questa povera penisola ferita.
Dedico questo blog a Marco Porcio Catone, nella vana speranza non segreta di potergli un giorno somigliare.
venerdì 22 settembre 2006
Indonesia. Dalla parte di chi soffre.
Sono scoppiati disordini a Atambua, a Timor ovest, in Indonesia dopo la fucilazione nelle isole Sulawesi di tre cristiani. Centinaia le persone di fede cristiana si sono dirette verso gli uffici del procuratore generale rompendo i vetri a sassate. Si parla anche di vittime . Gli uffici sarebbero stati incendiati, secondo radio Elshinta. Il capo della polizia locale, un vescovo e altri esponenti religiosi hanno esortato i manifestanti alla calma.
Attualmente un migliaio di persone si sono radunate per ascoltare le parole del vescovo. Non e' ancora chiaro se vi siano dei feriti o dei morti. La polizia non ha voluto fare commenti. Ieri sera sono stati giustiziati tre cristiani che erano stati condannati a morte per aver incitato alla violenza, negli anni 2000-2001, una folla di correligionari nell'isola di Sulawesi . I tre cristiani erano stati condannati alla pena capitale dopo essere stati giudicati responsabili di un massacro di musulmani avvenuto durante gli scontri interreligiosi di Poso nel 2000. La condanna doveva già essere stata eseguita lo scorso 12 agosto, ma in seguito alle forti proteste internazionali e a un appello del Papa, la loro esecuzione fu rimandata all'ultimo minuto.
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domenica 10 settembre 2006
Non un grande papa... un enorme papa!
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mercoledì 30 agosto 2006
La destra e l'occasione perduta
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domenica 27 agosto 2006
Lo scontro di civiltà

E noi perdiamo tempo con Israele ed Hezbollah.
La storia dello scontro di civiltà mi ha sempre inquietato. In Calabria la mia bisnonna cucinava a mio nonno un piatto chiamato "cusù cusù", calabresizzazione evidente del più famoso cibo arabo. Personalmente mi sento molto più vicino alle culture del cus cus che a quelle della caccia al latino che i giovani britannici annoiati organizzano ogni venerdì sera ai danni di italiani e spagnoli. Non mi piacerebbe trovarmi nella stessa trincea di questi idioti pieni di birra a combattere contro i nostri dirimpettai, inquilini del Mare Nostro. Dunque, lo scontro di civiltà tra "occidente" e mondo arabo è un pericolo da evitare ad ogni costo.
Mentre scrivo, uno scontro di civiltà reale è già in corso da secoli, e non si svolge nella calura del deserto afgano, ma sul suolo della più antica democrazia del nostro tempo, quella per intenderci per la quale la tradizione ha coniato il significativo termine di "Perfida Albione", ma che è anche conosciuta come Gran Bretagna.
Accade che in questo civilissimo stato un calciatore possa ricevere una sospensione per essersi fatto il segno della croce in uno stadio pieno di protestanti.
La chiamavano perfida Albione, i suoi abitanti stupidi inglesi. Ma questa Gran Bretagna dove a credere in Dio si va in galera è oggi una locomotiva politica dell'Europa, braccio armato dell'occidente, bandiera di libertà.
Lo scontro di civiltà è già in atto, oltre la Manica, tra la Scozia del Celtic e la marcia orangista di Belfast.
E noi perdiamo tempo con Israele e Hezbollah.
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martedì 15 agosto 2006
Risposta a Martin Venator, perché ci tengo sia chiaro.
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domenica 13 agosto 2006
Israele sbaglia

D'altronde risale ormai al 1947 la risoluzione dell'ONU n.181, che prevedeva la costituzione dello Stato di Palestina, impedita da subito dalle truppe di David. Da allora ci sono stati parecchi conflitti vinti sempre dallo stato ebraico, il quale nel 1967 compie il grande passo: l'occupazione dei territori teoricamente "destinati" allo Stato di Palestina: la cosiddetta Cisgiordania e la striscia di Gaza. La comunità internazionale ha costretto poi lo stato ebraico ad abbandonare quelle zone (mai completamente, neanche per un giorno) lasciando all'Autorità Nazionale Palestinese il graduale controllo di alcune città , non prima però di aver sparso un po' ovunque quella che non può aver altro nome se non quello di vergogna: le colonie. Sono città fortificate, abitate da sionisti convinti e difese da parecchi soldati, da muri sormontati da filo spinato. La vergogna di queste colonie è che si trovano a centinaia in pieno territorio palestinese, spezzettando e frammentando la continuità territoriale di quello che dal ’47 aspetta di diventare uno stato arabo. In questa maniera Israele ha messo un'ipoteca sul futuro: "Siamo costretti ad andarcene - sembrano dire quelle colonie - ma ritorneremo".
Per qualche anno, malgrado tutto, la terra di Palestina ha comunque conosciuto la pace. Quando c'è stato chi scrive era il Settembre del 2000. Non si sparava un colpo da tempo, le città principali della Cisgiordania erano in mano all'ANP, che con i suoi poliziotti governava decisamente bene. Gerico, Hebron, Ramallah, Betlemme. Certo da questa città, povera ma bella, si poteva vedere a poche centinaia di metri una colonia israeliana fortificata e ricca, e così nel cuore di Hebron viveva una città di 400 ebrei protetti da parecchi soldati all’interno di un’altra città di migliaia di arabi. Ma quantomeno si viveva, c'era la pace. Tutto è finito un bel giorno di Settembre quando Sharon, il capo del Partito anti-arabo, pensò bene di fare una passeggiata nel terzo luogo sacro all'Islam: la spianata delle moschee, da dove si crede Maometto sia asceso al cielo. Sharon sapeva benissimo della provocazione che questo significava. E riuscì nel suo intento: sassaiola, scontri, e lo scoppio della seconda Intifada, a quel tempo ancora la guerra dei sassi contro i carri armati. Questa passeggiata permise al suddetto politico di vincere le elezioni, e questo pone seri dubbi sulla voglia di pace del popolo israeliano. Il mondo scandalizzato dalla recente vittoria di Hamas non disse una parola per la vittoria del Likud cinque anni fa. Subito il pretesto era colto: rioccupati i territori con i carri armati, rase al suolo le case, distrutti i campi, ripreso il controllo delle città arabe. Dopo cinque anni di occupazione, di violenze da entrambe le parti (quelle israeliane più "efficaci", stando almeno al numero dei morti), di povertà, di campi distrutti e di acquedotti interrotti, le elezioni in Palestina, svolte con un imposto sistema democratico, hanno visto la vittoria di Hamas, l'organizzazione che non riconosce lo Stato di Israele. Noi chi avremmo votato? O meglio, chi si sente di condannare un popolo che vissuto nell'indigenza, nella guerra, nel terrore e nell'odio per decenni decide di votare l'unica organizzazione che sembra voler risolvere il problema per sempre, l'unica organizzazione che non avendo mai governato non si è ancora macchiata di corruzione, e che ancora crede nella rinascita del popolo palestinese? Chi scrive forse avrebbe votato Hamas, e io credo anche molti di quelli che leggono. Comunque Hamas ha vinto, e il mondo intero ha tagliato i fondi alla già inutile ANP, interrompendo il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici e costringendo i palestinesi ad accettare il corteggiamento dell'Iran, ricco e disposto ad aiutare l'ANP.
Ciò che farebbe ridere, se non facesse rabbia, è la motivazione con cui i fondi sono stati tagliati: Hamas non riconosce lo stato di Israele. Un'"autorità" senza alcun potere, senza libertà né continuità territoriale si permette di non riconoscere una democrazia forte e solida, ricchissima e dotata di testate nucleari e di appoggi internazionali. Nessuno però si sogna di tagliare i fondi a chi non riconosce lo Stato di Palestina, anzi a chi non ne permette neppure la costituzione.
Le prese in giro non sono finite. È lo stesso Sharon ad annunciare un “doloroso” piano di smantellamento delle colonie. Sono in venti ad essere svuotate ed abbandonate, tutte nella Striscia di Gaza. La presa in giro sta nel fatto che mentre venivano abbandonate queste (la punta dell’iceberg, se pensiamo che l’intera Israele è grande pressappoco come il Lazio, e la Striscia di Gaza ne rappresenta l’1,8%) si rafforzavano quelle in Cisgiordania: centinaia, abitate da migliaia di coloni. L’integrità territoriale palestinese veniva quindi per la prima volta riconosciuta, ma per il solo territorio intorno a Gaza; la Cisgiordania, decisamente più grande, veniva occupata con maggior convinzione grazie anche al muro anti-terrorismo: niente di scandaloso, se non divorasse intere fette di territorio arabo.
Insomma Israele ha torto da vendere. Questa guerra sarebbe da condividere, se non fosse il frutto scatenato da una politica coloniale di non riconoscimento dell'altro. Una politica che alla lunga sta colpevolmente logorando le ultime possibilità di una convivenza pacifica tra i due popoli. E questo, forse, è proprio lo scopo di chi comanda, a Tel Aviv.
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martedì 1 agosto 2006
Perché questo indulto è una porcheria
- Perché l'idea di svuotare le carceri per combatterne il sovraffollamento è un'idiozia. Esattamente come dimettere i malati dall'ospedale per far stare più comodo chi vi resta dentro.
- Perché in Italia non c'è la certezza della pena. Esiste una diffusa convinzione che compiere un reato non comporta necessariamente l'applicazione di una pena. Questo provvedimento alimenta questa convinzione, instillando l'idea dell'impunità.
- Perché è ridicolo che stupratori, mafiosi, pedofili e terroristi restino dentro se intanto escono serial killer, assassini, rapinatori e spacciatori.
- Perché tre anni di riduzione, senza nemmeno la condizione di aver passato due terzi della pena, sono uno sconto spropositato e inammissibile.
- Perché fra sei mesi il problema del sovraffollamento delle carceri si ripresenterà tale e quale ad oggi.
- Perché ad un assassino come Erika di Novi Ligure oramai danno soltanto sedici anni invece dell'ergastolo. Dopo otto può uscire in semilibertà, con questo provvedimento sono sufficienti sei anni.
- Perché questo indulto serve soltanto ai no global condannati per aver distrutto Genova, Napoli, Milano e che sono appena stati condannati a sei anni: 3 di condizionale, 3 di indulto = tutti a casa.
- Perché a rimetterci sono soltanto le vittime, che non vedranno neanche i risarcimenti economici.
- Perché Mastella sta alla giustizia come io sto all'algebra.
Vi vengono in mente altri motivi?
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sabato 15 luglio 2006
Il diritto all'esistenza

Qui si tratta di un popolo che non ha il nucleare iraniano o israeliano. Un popolo che non ha carri armati anzi neppure un esercito. Un popolo che deve mantenere la calma di fronte alla sfacciata ricchezza a pochi chilometri di distanza. Un popolo che deve piegare la testa e tacere di fronte alle case rase al suolo ed ai campi devastati dall'esercito israeliano con la sola motivazione che un cecchino si nascondeva sul tetto.
Per un palestinese la casa e il campo sono tutto. Per un palestinese avere un campo rigoglioso significa essere sicuri di mangare l'indomani. Avere il campo distrutto significa morire di fame, di fame vera.
La lotta tra Israele e Palestina è una lotta impari. Hamas può divertirsi a sostenere di non riconoscere lo stato di Israele. Ma non può far nulla per abbatterlo.
Israele può sbracciarsi in mille promesse di un futuro stato palestinese. Ma fin'ora è stato l'unico impedimento a che questo si formasse.
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sabato 24 giugno 2006
La libertà
Parco del Colle Oppio, 22 giugno.
È sempre frequentato così male questo posto. Non bastavano gli immigrati costretti a dormire tra le rovine e a morire di caldo o di freddo in nome di un assistenzialismo mascherato da solidarietà. Ora ci si mettono anche i "pankabbestia", brutti da far paura alla fame, sporchi che loro sanno, e con l'immancabile seguito di cani.
Sono quattro-cinque, disgustosi, neri vestiti come capita e coi capelli rasati per metà e per metà lunghi, da bravi figli di papà alla moda.
Mi giro pensando ad altro, mi da fastidio che si siano spinti fin qua, ma non mi suiciderò per questo.
Guardo l'albero, rischia di cadere. Sarebbe un disastro storico, ma non so come evitarlo... Improvvisamente sento guaire, latrare in quella maniera strappalacrime come solo i cani sanno fare. Mi affaccio: è il cane dello zozzone, piange senza essere toccato, cerca rifugio su se stesso dall'omino che lo cerca di prendere. Il pianto risveglia nel suo ricordo bastonate che non ha mai capito.
Il ragazzotto lo afferra per il collare, lo solleva un po' e comincia a camminare trascinandolo. Non ha voglia di restare piegato, e quindi lo solleva per il collo costringendo il cane ad un andatura innaturale.
La corazza che mi sono costruito funziona a metà. Non soffro, provo rabbia. E la rabbia è un sentimento positivo.
Torno a pensare al mio albero, ed agli incerti destini del mondo appesi ad esso.
Passano dieci minuti, e il mio pensiero è volato verso altre spiagge lontane, che forse neanche esistono.
Altri latrati attirano la mia attenzione. Stavolta sono grida umane, berci senza musica che chiamano senza impegno un nome inglese. Torno a girarmi verso il parco, le grida sono ancora lontane. Dopo qualche secondo passa di fronte a me, correndo come una freccia in una direzione che solo lui sapeva, il cane bianco dalla coda arricciata, lo stesso che dieci minuti prima piangeva per l'ingiustizia della propria condizione. Ha trovato il coraggio, forse proprio per non vedersi piangere più.
E corre come un felino, attraversa il parco umano e punta dritto a quella che sa essere l'uscita. Non si guarda mai indietro, non ci pensa un istante. Non si ferma neppure superata la recinzione, imbocca Via del Monte Oppio, riposerà più tardi, ora deve soltanto correre, raggiungere la libertà della propria natura. Il cane fedele fino alla morte ha scelto la libertà, ha scelto di correre più veloce di loro, dove due sole zampe non sanno arrivare. Dietro di lui, a sempre più metri di distanza, due drogati corrono sempre più piano, e cercano di tenere gli occhi su quel punto bianco sempre più piccolo.
Dio solo sa se mi sono ingannato, ma sul muso di quel cane mi è parso di vedere uno sguardo nuovo.
Nessuno mi convincerà che non fosse un sorriso animale.
giovedì 11 maggio 2006
Il primo passo

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venerdì 28 aprile 2006
UN GRANDE PAPA!

venerdì 7 aprile 2006
Prodo
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giovedì 6 aprile 2006
Per chi non ci credeva
AdnKronos, 5 Aprile 2006: CINA: La polizia della provincia settentrionale del Gansu, in Cina, ha scoperto due braccia umane bollite, appartenenti presumibilmente a bambini fra i 5 e gli 8 anni, in una discarica di Lanzhou. Una settimana fa, erano stati scoperti nella stessa provincia 121 teschi umani. Lo riporta l'agenzia di stampa missionaria AsiaNews.
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lunedì 3 aprile 2006
La prima pietra
È sicuramente una delle situazioni più difficili per un cristiano. Se la democrazia forse un valore universale, se la si applicasse anche in questi casi, gli elettori non avrebbero dubbi: chi ha ucciso Tommaso merita la morte. Lo pensano tutti, lo si sente dire agli angoli delle strade, e forse significa che il nostro popolo è ancora in grado di amore, quell'amore che non può evitare di trasformarsi in rabbia, in odio addirittura.
Neanche a farlo apposta, il Vangelo di oggi racconta un episodio simile: un caso di palese ingiustizia, un episodio di manifesta iniquità, una flagranza di reato che suscita rabbia, per la quale la legge prevede la morte.
Ma chi può dare questa morte? Chi è autorizzato ad interrompere la vita, chi è in grado di giudicare l'autore di un delitto, per quanto odioso e inaccettabile, come meritevole di morte?
"Chi è senza peccato", è la risposta.
E cioè nessuno.
Allora mettiamo via i propositi bellicosi, riponiamo la forca nei ricordi del passato e spendiamo qualche minuto per pregare per l'anima di Tommaso.
E per l'anima di tutte le vittime innocenti dell'odio: i preti nel mondo, la cui uccisione è diventata una moda per qualcuno, gli animali nei laboratori della vivisezione e negli stabulari, vittime "non intelligenti" dell'"intelligenza" dell'uomo.
E per il assassini di Tommaso. Le cui anime hanno bisogno più che mai delle nostre preghiere.
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venerdì 24 marzo 2006
Le briciole di Povia

Lo fischiettano tutti, e in effetti non c'è che dire il motivo è orecchiabile davvero. Certo, non meritava proprio di vincere il festival di Sanremo battendo canzoni neanche paragonabili, come quella dei Nomadi, ma quando si parla di musica italiana non contano soltanto le note, anzi. E in quanto al testo la canzone di Povia fa davvero rabbia.
Passi il verso del piccione, un trinire a mezza strada tra il ridicolo e il patetico che in verità nessun piccione ha mai emesso.
Passi il fare mimico di questo cantante capellone che non si capisce se sta prendendo in giro chi lo ascolta o se è un idiota davvero.
Ma quello che non va giù è il minimalismo eretto a bandiera, la circumnavigazione delle parole attorno ad una mostra di mediocrità, e, quel che è peggio, di elogio della mediocrità.
E così invece di ristabilire la dignità del volatile, la vulgata sulla presunta piccolezza morale del piccione è assurta a verità ideologica e peggio ancora a traguardo da raggiungere per conseguire la felicità.
Emblema di questo gusto del piccolo è la spiegazione che la canzone stessa ci da' della metafora: "chi guida crede che mi mette sotto ma io con un salto volerò ma non troppo in alto, perché il segreto è volare basso".
Ora anche i nani hanno un inno.
Il segreto è volare basso, non perdersi nell'affannoso tentativo di raggiungere le vette, di toccare il cielo. Svolazzare, come galline, a pochi centimetri da terra, a malapena quanto basta per non essere investiti. E poi tornare a terra, a beccare le briciole senza chiedere niente di più.
Ma non contento di aver poggiato così miseramente il sedere sul fondo, Povia decide di scavare, facendoci un esempio di applicazione di questa mediocrità umana: una volta il nostro antieroe avrebbe chiesto alla sua spero inventata nonna come diavolo avesse fatto a resistere una vita intera laggiù in campagna, senza televisione, senza videogiochi, senza palestra e soprattutto con un solo uomo al fianco! Un uomo solo, per tutta la vita, povera nonna..!
A questo punto l'ascoltatore si chiede trepidando come sarà sopravvissuta quella simpatica vecchina alla noia del matrimonio. La risposta è semplice: come il piccione, accontentandosi delle briciole, cioè del marito, di uno solo, con i pregi e i difetti di un uomo.
Non vorrei essere altri da chi sono, ma soprattutto non vorrei proprio che un giorno, sul finire di un'intera vita passata insieme, dopo aver diviso gioie e dolori, mia moglie confessasse a nostro nipote ciò che la nonna ha confessato a Povia: "Non sai quante volte non pensavo a tuo nonno".
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domenica 19 marzo 2006
Recensione su "Senza Radici", di Benedetto XVI e Marcello Pera
Il testo si compone di due capitoli nei quali i due scrivono i propri pensieri e le valutazione intorno al tema, e due lettere, nelle quali ognuno risponde agli spunti lanciati dall’altro.
Il risultato è un bel volume, nel quale l’argomento viene studiato da più punti di vista, ed analizzato attraverso più lenti: filosofica, teologica, storica, religiosa, identitaria…
L’ex-cardinale ritiene di dover partire – per una corretta analisi dei fondamenti dell’Europa – dalla domanda: “Cos’è l’Europa?”. La risposta non può prescindere da un’analisi storica che prende il via da Erodoto, scrittore greco del V secolo a.C., il quale per primo parla dell’Europa come concetto geografico. L’Europa dell’antichità è l’insieme dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo.
Soltanto più tardi, con l’invasione islamica del Nord Africa, il Mediterraneo diventa limes, confine tra culture, cessando la propria funzione aggregante. La nuova Europa si sposta quindi verso il settentrione; in questa nuova Europa, la continuità ideale è garantita dalla continuità delle istituzioni: l’Impero Romano è rinnovato nel Sacro Romano Impero, creato da Carlo Magno come una respublica christiana europea.
Accanto a questa Europa si va formando una seconda Europa: il “polmone” orientale – di lingua greca – che a Bisanzio continua a considerarsi il vero erede di Roma. Caduta anche Bisanzio, lo scettro d’oriente si sposterà a settentrione: a Mosca, immaginata come “terza Roma”, erede ideale del sentire europeo orientale.
Le due europe crescono separate ma parallele. Se a Roma si sviluppa una consapevole divisione del potere temporale dal potere spirituale (il Papa di Roma non è il capo dell’Impero), ben riassunta nella teoria dei due soli di Dante, a Bisanzio Impero e Chiesa appaiono identificati, secondo il modello dell’antico testamento di Melchisedek, re e sacerdote ad un tempo.
A Roma la separazione stato-chiesa ha origine antichissime. Viene riassunta da papa Gelasio I che in una lettera all’imperatore Anastasio I rimprovera l’unità dei poteri al modello bizantino di Melchisedek, affermando che la separazione è stata voluta da Cristo stesso “affinché nessuno si insuperbisca”. Ma è lo stesso autore ad ammettere che – per via di un innato “impulso alla totalità” dell’uomo – il principio della separazione è divenuto spesso sorgente di contrasti.
L’Europa nasce qui: è la somma di due esperienze: l’Impero carolingio e l’Impero bizantino, l’Europa occidentale e l’Europa orientale.
All’interno dell’Europa occidentale poi si ha una frattura importante: il settentrione germanico si separa dal meridione latino con una rottura definita di matrice “cristiano-illuminista”. Un nuovo limes si va a creare all’interno dello stesso contenitore culturale. Anzi più limites, se contiamo anche le fratture interne al fronte germanico tra luterani, protestanti e anglicani.
Il nuovo Papa individua poi una terza svolta: dopo la prima (la dissoluzione del mondo antico e la formazione di un’Europa a due polmoni) e la seconda (la caduta di Bisanzio, la translatio imperii verso Mosca e la frattura nell’Europa occidentale) si ha infine una terza frattura trasversale: la Rivoluzione Francese rappresenta il rifiuto della fondazione sacrale della storia. La storia non è più emanazione del Verbo: il nuovo stato secolare affonda le proprie radici nella sola razionalità, e la religione viene esiliata nella sfera del privato.
Questa separazione ha effetto soprattutto nel mondo cattolico-latino. Non esiste una parola, nelle lingue germaniche, che corrisponda al termine laico, poiché nei paesi nordici è questo scisma è avvenuto più lentamente, a causa della impostazione “riformata” che già aveva rimesso l’individuo al centro del sentire religioso, accogliendo in sé le idee liberali e diluendo così, almeno in principio, questa frattura.
Completato il quadro storico, il religioso passa poi a tracciare le linee di un’Europa contemporanea, vista dal mondo intero come sempre più lontana da qualsiasi base spirituale e morale. Le grandi religioni (islam e buddismo soprattutto) si elevano oggi ad alternativa forte ad un modello europeo che ha tagliato i ponti con la propria identità morale: la democrazia, la libertà, i valori europei sono visti oggi come oppressione, liberismo sfrenato, colonialismo. E questo, purtroppo, dagli stessi europei, incapaci di vedere nel proprio modello di vita una conquista di civiltà, pur tra i mille inevitabili difetti.
Alla domanda “qual è la cultura europea” l’autore si risponde con l’impressione sempre più diffusa che il sistema di valori culturali europei sia uscito dalla scena mondiale, rinnegato dagli stessi europei. Addirittura azzarda un paragone con il declino dell’Impero Romano, soprattutto nella mancanza di punti di riferimento etici sempre più diffusa, in uno strano concetto di libertà, nella sfiducia nei valori.
Il futuro Benedetto XVI si interroga quindi sulla ragionevolezza di due tesi: quella di Spengler, secondo cui la civiltà occidentale sarebbe giunta alla fine, inevitabile come la morte per un organismo, e quella di Toynbee, che identifica come causa della crisi l’abbandono della dimensione spirituale in favore del progresso tecnico-materiale, e che vede la soluzione in mano a quelle che in maniera suggestiva definisce minoranze creative.
La nuova definitiva domanda è quindi: “come restituire dignità umana all’esistenza?”.
Per rispondere anzitutto si sancisce il fallimento dei due modelli europei di gestione del rapporto tra razionalità e spiritualità: il modello latino-laico e il modello germanico delle chiese-stato, ai quali aggiunge un terzo modello: il socialismo, visto, nella sua versione democratica, come elemento indispensabile nella formazione di una coscienza sociale europea; dogmatico ed anti-europeo nella sua versione totalitaria, intesa come l’origine del determinismo storico che arriva a relegare religione e morale in un determinato quadro storico, togliendo così valore assoluto ai diritti umani, al rispetto della vita, ai traguardi raggiunti dall’Europa.
Qual è dunque la soluzione? Anzitutto il riconoscimento dei valori fondanti l’Europa, senza il quale si va incontro al declino della coscienza morale basata e all’autodistruzione della coscienza europea. Questo riconoscimento andrebbe inserito in un sistema di stampo americano, nel quale le chiese sono lasciate libere ed esterne al tessuto politico, ma nel quale contestualmente l’intera popolazione americana riconosce un sistema di valori fondamentali che trae origine nella religione ma che ormai è riconosciuti come universali. L’Europa dovrebbe quindi riconoscere altrettanti valori fondanti, cosa che non ha fatto in sede di stesura del trattato costituzionale, dove ha lasciato fuori perfino una dicitura neutra e scarna come “radici cristiane” per inserire invece, con un gioco di parole, le “eredità culturali, religiose e umanistiche”, frase che viene messa in paragone, per la propria genericità, al termine “essere umano” rispetto a “cittadino italiano”. Affermare i diritti universali (primo fra tutti il riconoscimento della dignità della persona) senza riconoscerne l’origine significa lasciarli nel vago, come venuti dal nulla.
Ma quali sono di fatto queste radici cristiane, al di là del termine anche abusato? Quali i valori ormai senza paternità? Quali gli elementi morali fondanti che un’Europa che auspica di avere un futuro dovrebbe riconoscere?
Il primo elemento morale fondante l’Europa è per gli autori il riconoscimento dell’”incondizionatezza” dei diritti della dignità dell’uomo, da riconoscere come diritti di natura, preesistenti la legge e non concessi dal legislatore.
Il secondo elemento è identificato nel matrimonio monogamico e nella famiglia, cellula fondamentale dell’edificio sociale europeo.
Il terzo elemento è la questione religiosa, inteso non come ingerenza religiosa nel campo laico, bensì come rispetto nei confronti del sacro, come conseguenza del ridisegnamento del concetto di libertà: libertà di opinione, non di distruggere la dignità dell’altro. Libertà di pensiero, non di cancellare i diritti umani; e quindi la laicità intesa come rispetto per ciò che è sacro agli altri, non come disprezzo per la fede cristiana.
Ma cos’è che ha impedito all’Europa di accettare questi che sono considerati dati di fatto, conquiste della civiltà europea, traguardi importanti raggiunti dall’uomo? La causa è da ricercare in un “morbo” che affligge il mondo occidentale e l’Europa soprattutto: il morbo del relativismo, il pensare che i valori siano intercambiabili, le culture relative al luogo in cui si sono sviluppate, le civiltà equipollenti. Tutti hanno ragione, che poi equivale a dire che nessuno ha ragione. Per l’Europa relativista, riconoscere e difendere la propria identità è un atto egemonico insopportabile, un atteggiamento totalitario, non liberale e non rispettoso dell’autonomia dei popoli. Per questa Europa il riconoscimento di “radici cristiane” odora di fondamentalismo, di arroganza. E questo perché “l’Occidente non ama più se stesso”, i suoi cittadini vedono nel sistema europeo ogni lato negativo e deprecabile, e sembrano aver dimenticato le infinite conquiste di civiltà e di progresso morale che lo stesso popolo europeo ha raggiunto. Ne consegue una sudditanza psicologica verso chiunque, visto come sicuramente migliore, più genuino, persino più buono. Il relativismo culturale diventa quindi senso dell’inferiorità: è politicamente scorretto affermare che il sistema politico raggiunto dall’Europa e dall’Occidente in generale è migliore dei sistemi politici dei paesi arabi. È invece corretto giudicare le azioni dei capi di governo occidentali come terroriste, arrivando talora persino a giustificare, in nome del relativismo, il terrorismo vero e proprio, quello di chi si fa saltare in aria nei pullman affollati di gente, per comprendere il quale, a detta delle migliori menti del politically correct, bisogna capire “le ragioni che possono portare un essere umano a trasformarsi in una bomba”. Gli autori vanno così a definire quella che si va costituendo come una dittatura del relativismo, nella quale è reato sostenere opinioni decise, difendere identità, affermare primati anche solo in ordine a sistemi politici. Ed allo stesso modo è politicamente corretto essere contro la guerra, salvo poi non entrare nel merito delle motivazioni che quella guerra hanno generato e non spendersi a cercare soluzioni differenti, limitandosi ad appendere una bandiera colorata alla finestra. «“Beati i costruttori di pace”, dice il Vangelo, non i pacifisti».
Tutto questo va a costituirsi quindi come dittatura, in quanto «tutto ciò che è fedeltà ai valori tradizionali viene bollato come intolleranza e lo standard relativistico è elevato a obbligo». Ne è esempio il caso di un predicatore in Svezia condannato ad una pena detentiva per aver espresso la posizione della Chiesa Cattolica circa l’omosessualità.
Questa quindi l’identità attuale dell’Europa: quella derivante dal disprezzo di sé (il relativismo ci insegna che tutte le civiltà sono uguali, salvo poi ammettere una netta inferiorità della nostra) sommato al cosiddetto «spirito di Monaco del 1938», quello che rifiuta di guardare in faccia la minaccia reale e preferisce continuare a battersi il petto per le colpe proprie, come se questo servisse a scongiurare i conflitti. Esattamente come fecero le grandi potenze nel 1938 a Monaco con Hitler, disposte a cedere un pezzo di Europa come «riparazione» delle pene inflitte alla Germania all’indomani della Prima Guerra Mondiale.
Ma come uscire dall’impasse morale nel quale la nostra società è sprofondata? Gli autori individuano due soluzioni, parallele anche se differenti in alcune sfumature.
L’attuale Papa si richiama al pensiero di Toynbee, il quale vedeva nelle minoranze creative la spinta propulsiva necessaria ad ogni società per conseguire un progresso morale e spirituale e non solo tecnico-materiale. I cristiani – o almeno una parte attiva di essi – dovrebbero concepirsi quindi come minoranza creativa in grado di restituire valori forti ad un mondo sempre più impantanato nel dubbio relativista.
Il presidente del Senato si richiama a questo concetto di minoranza creativa per lanciare invece una proposta: la religione civile, intendendo con questo termine una religione riconosciuta ma non confessionale, che costituisca il sottostrato culturale e valoriale della nostra società e che scelga di uscire dal campo politico dei partiti, delle associazioni, dei programmi di governo e decida piuttosto di penetrare la società in maniera più intimistica, come insieme di valori riconosciuti più che come comunità religiosa costituita. «È perciò una religione cristiana non confessionale quella che suggerisco. Come io la penso, ha più monasteri che chiese centrali, più monaci che elaborano e tramandano che funzionari della fede, più praticanti che predicanti». Un sistema quindi di valori condiviso, presupposto da tutti – credenti e non – come base spirituale e morale della società, all’interno della quale la Chiesa troverebbe posto – come negli Stati Uniti d’America – come chiesa libera, totalmente separata dallo Stato, che eviterebbe in questa maniera la contrapposizione tra laici e credenti e la condivisione di un sistema di valori unico.
Questo passaggio dovrebbe fare i conti con il mondo laico – nel quale è compreso lo scrittore stesso – che avrebbe l’obbligo morale di smettere le armi delle crociate laiciste su argomenti nei quali la morale cristiana corrisponde di fatto alla morale pubblica. I laici dovrebbero guardarsi dal trasformare troppo facilmente i capricci in desideri e i desideri in diritti così come i cattolici devono guardarsi dal trasformare l’interpretazione della Scrittura in un dogma. E in base a questo discorso entrambi gli autori convergono sulla convinzione che riconoscere l’embrione come persona umana e difenderlo come tale nel diritto alla vita rappresenti una scelta di civiltà umana e non religiosa, visto che la difesa della vita è anche un valore laico. Va rifiutata, quindi l’arroganza laicista e il dogmatismo cattolico, per cedere il passo alla fronesiV di Aristotele, che è quella «disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’azione, concernente le cose che per l’uomo sono buone e cattive», e che unica può porre fine all’attuale sfida tra scienza e morale, tra ciò che si può tecnicamente fare e ciò che si può moralmente fare.
Quello su cui gli autori discordano è il concetto di religione civile. Per Ratzinger, la creazione di una religione civile in un sistema di chiese libere di stampo americano non significa la «de-confessionalizzazione» della religione cattolica, la quale invece dovrebbe conservare tutto il proprio vigore spirituale e anche il carattere confessionale, pena la definitiva perdita di capacità di rappresentare un punto di riferimento forte per tutti. È il caso del protestantesimo, che ha derogato ai propri valori finendo per secolarizzarsi troppo e non rappresentare più una proposta accattivante per i cittadini, che sempre più gli preferiscono il rigore maggiore delle chiese evangeliche.
La religio civilis, sostiene Benedetto XVI, dovrebbe essere l’obiettivo da raggiungere attraverso la presa di coscienza delle minoranze creative, uomini innamorati di Cristo che facciano sì che «gli imperativi cristiani non siano più zavorre che immobilizzano l’uomo, ma piuttosto ali che lo portano in alto». Perché questo progetto funzioni è necessario però che queste minoranze imparino ad andare incontro ai laici – da amare come coloro che cercano la verità, non più da disprezzare come coloro che la rifiutano – cercando un’apertura non impossibile e abbattendo definitivamente i muri che impediscono il contatto tra i due mondi: la convinzione che la religione sia un limite per le libertà dell’uomo, e la sempre più diffusa sensazione che la fede cattolica remi contro il progresso scientifico e la razionalità.
Tornare a parlare il linguaggio dell’uomo. È questo in sostanza la provocazione lanciata dal Papa. Il cristiano deve dimostrare che i precetti religiosi non negano la libertà dell’uomo, ma la esaltano. Deve dimostrare che la fede non va contro la ragione umana e il progresso tecnico-scientifico, ma cerca di incanalare queste risorse sempre più verso il bene di tutti. Mostrare dunque un modello di cristiano che offra un’alternativa gioiosa ad un mondo di falsi piaceri che hanno bisogno della droga per sopravvivere. E questo ritornando a parlare attraverso la razionalità, che non è atea come oggi si crede, ma che invece può rappresentare il vero punto di contatto fra l’etica religiosa e l’etica laica.
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venerdì 3 marzo 2006
Il nome del Signore

Molto tempo fa viveva nella terra di Palestina un uomo giusto e amato per la sua rettitudine morale, al quale Dio aveva dato in dono ricchezze di ogni genere, una prole numerosa e fedele, buoi e vacche in quantità (ma potremmo dire automobili e case di proprietà) che gli rendevano una mole di denaro più che sufficiente per vivere felice. Quest'uomo si chiamava Giobbe.
Un bel giorno un messaggiero giunse a casa di Giobbe per informarlo che i suoi figli erano morti, e con essi era perduto il bestiame e tutti i suoi averi guadagnati con il sudore della fronte e i sacrifici di una vita.
Costretto a vivere in una grotta, Giobbe passava le giornate seduto nel letame a grattarsi con un coccio le purulenti piaghe di una malattia gravissima e temuta, come oggi il cancro.
La moglie bestemmiava Iddio ripetendo una frase ancora oggi molto attuale: "Se Dio è buono non può volere tutto questo. Dunque o non esiste o è cattivo". E così il cuore di questa donna smise di amare Dio.
Diversa la reazione di Giobbe. Egli sapeva che la ricchezza era stata un dono gratuito del Signore, e così non dubitava di Lui neppure nella disgrazia. Amava ripetere: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore" e così dicendo continuava a benedire Dio nella povertà, come aveva fatto nella ricchezza, come Gesù Cristo stesso farà nell'ora dell'angoscia con quelle splendide parole: "Sia fatta la tua volontà, non la mia".
La storia ha un lieto fine: vista la devozione del suo servo, Dio gli dona dieci volte più di ciò che aveva, e lo accoglie nel suo regno dove non c'è dolore.
L'esperienza quotidiana è purtroppo altra cosa. Quanto spesso i nostri piccoli cervelli - nel vano tentativo di comprendere la grandezza di Dio - si ritrovano a considerarlo piuttosto il servitore delle proprie esigenze, l'amministratore dei propri beni, il soldato posto a guardia del nostro tesoro. E così facendo dimentichiamo di essere noi a dover gioire della sua bontà, a doverci felicitare ogni giorno per la buona notizia, che è la futura, inevitabile, vittoria del bene sul male, della vita contro la morte.
E invece da piccoli uomini ci limitiamo ad aspettare che il Signore arrivi ad appianare come noi vogliamo le montagne della nostra vita, in cambio quando va bene di tre quarti d'ora di noia a settimana. Quei tre quarti d'ora che lui ha creato per noi, che facessero da porto sicuro per non perderci in mare aperto.
Se tutti noi solo ci sforzassimo di benedire le disgrazie e il dolore della vita, consapevoli che ogni passo è necessario sulla strada che conduce inevitabilmente all'alba, bé io credo che sarebbe un mondo decisamente migliore.
martedì 21 febbraio 2006
Irving e il mondo libero
Quest'estate voglio andare in vacanza in Austria e non ho la minima intenzione di passare tre anni in galera quindi chiarisco subito: il regime nazista ha pianificato la Soluzione Finale, cioè lo sterminio dell'intera popolazione ebraica e ha causato la morte di circa 6.000.000 di ebrei.
A me interessa però parlare di un episodio che si consuma a sei anni dal nuovo millennio e all'ombra dell'ideologia che rappresenta una nuova primavera dei "Lumi" della ragione: l'ideologia democratica.
Io studio storia, e mi piacerebbe diventare uno storico. E ad uno storico può capitare - sebbene non dovrebbe - di dire qualche corbelleria, di convincersi di dati non veri. È accaduto a Sabbatucci e a Vidotto, due famosissimi professori di Contemporanea, che per troppi anni hanno confuso le foibe in Istria con "note mete di suicidi", o hanno dimenticato i massacri dei partigiani all'indomani dell'"insurrezione nazionale" (10.000 morti nell'arco di un mese) o anche a guerra finita. Eppure Sabbatucci e Vidotto possono villeggiare sereni in Tirolo, passeggiare per la romantica Vienna, persino visitare la casa di Mozart.
Un loro collega inglese no. L'anziano storico Irving è stato condannato a 3 anni (sic!) di galera per aver scippato una vecchietta. No scusate ho sbagliato sentenza, la motivazione è un'altra: "abuso di libertà d'opinione". Chi ha scritto questa legge non doveva aver molto chiaro il concetto di libertà.
In pratica lo studioso è stato incarcerato per aver sbagliato una ricostruzione storica, affermando (17 anni fa) che i dati in suo possesso gli permettevano di dubitare della veridicità dello sterminio nazista.
In un'epoca all'insegna del relativismo, in cui dubbio non solo è un diritto ma diventa la patente di apertura mentale, dubitare di un drammatico episodio storico è reato punibile con trentasei mesi di acqua e gallette.
L'opinione pubblica non ha mosso un dito: "Ovvio che stia in galera, ha negato l'esistenza della Shoah!".
Cioè ha detto una bugia, una grossa bugia.
Non sapeva, signor Irving, che in democrazia si può finire in galera per aver detto una bugia?
Io, per esempio, se me lo avessero detto non lo avrei mai creduto...
Cartesio diceva che nessun Dio potrà mai togliergli la libertà di dubitare, prerogativa unica dell'uomo. Sbagliava, perché Dio potrebbe farlo eccome, e non lo fa per Amore nostro, sentimento che Cartesio non doveva conoscere granché.
L'unico dio che ci nega il diritto al dubbio è in realtà una dea, e nei secoli ha cambiato nome, prima si chiamava Ragione, oggi Democrazia.
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mercoledì 15 febbraio 2006
Grazie Italia

L’Italia assume una ferma posizione contro l’importazione e la commercializzazione di pelli, pellicce e derivati di foca, un atto concreto contro la strage di oltre 300mila animali ogni anno. Questa mattina il Vice Ministro alle Attività produttive con delega al commercio estero Adolfo Urso, nel corso di una conferenza stampa in presenza della LAV, ha presentato tre importanti iniziative:
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martedì 7 febbraio 2006
Il fuoco

domenica 5 febbraio 2006
I mille sentieri dell'odio

Le più visibili occupano le prime pagine di ogni giornale da troppo tempo ormai.
E' inquietante pensare che un attentatore suicida lo si identifichi tra i cadaveri perché ha la testa spiccata dal corpo.
Deve essere uno scenario orribile, la cui mancata reale condanna da parte del mondo arabo e musulmano costituisce il vero motivo di discrimine tra "noi" e "loro". Ma discrimine significa differenza, separazione, non odio.
L'odio è qualcosa che non appartiene alla cultura cristiana. Può appartenere invece alla cultura laica.
E' in questo ambito che - complice il silenzio dell'individualismo protestante - l'Europa sta mostrando un lato di sé che neppure il più incolto degli americani aveva mai dato a vedere.
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giovedì 2 febbraio 2006
Hamas? l'avete voluto voi!

HAMAS AL GOVERNO?
QUANDO L'IDEOLOGIA SUPERA LA REALTA'.
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Della democrazia.
Il governo del potere, la gestione della res publica ha per carattere costitutivo lo scopo unico di raggiungere l'irraggiungibile: la condizione migliore per il maggior numero di persone, la giustizia sociale, l'uguaglianza di fronte alla legge, pari opportunità di realizzazione, la difesa dell'identità. In due parole il bonum commune, il bene di tutti.
In questo quadro il sistema democratico devia dallo scopo.
Anzitutto da un punto di vista ideale: democrazia è una bella parola frutto del matrimonio dei termini demos e kratos, popolo e potere.
In verità, in un sistema democratico il popolo non raggiungerà mai il potere ma lo delegherà ai propri rappresentanti secondo rapporti di forza nei quali il 51% comanderà sempre sul 49%. Si riconoscerà che il popolo non è il 51% dei cittadini, visto che questa percentuale non è una maggioranza qualificata da rappresentare il popolo.
Stabilito ciò, il sistema democratico si configura come sistema legittimamente oligarchico, nel quale pochi comandano sul popolo intero in virtù di una delega di una parte di esso: la metà.
Ciò detto dobbiamo scendere nel merito: il sistema democratico prevede di fatto l'alternanza: continue e regolari verifiche elettorali creano e disfano "maggioranze" di governo sempre rappresentative di quella metà dei votanti più uno.
L'esigenza di queste verifiche continue, però, allontana il governante delegato dall'obiettivo principe - che abbiamo detto essere la ricerca del bonum commune - per legarlo indissolubilmente alla ricerca del consenso, che per definizione non coincide col bene di tutti.
Per comprendere il consenso dobbiamo riconoscere un presupposto semplice: il cittadino, l'uomo qualunque, desidera giustamente raggiungere la propria felicità. Ma la propria felicità non coincide quasi mai con il bene comune ed ecco che il circuito si chiude, lasciando al governante due sole alternative: ferma restando l'esigenza del medesimo di ricercare e conservare il consenso, egli si vedrà costretto a promettere al cittadino atti e provvedimenti in direzione della felicità di quest'ultimo; ottenuto il consenso egli potrà rispettare le promesse fatte senza curarsi se queste conducano in direzione opposta al bene comune, e così entrare in contraddizione con il proprio unico scopo di governante; oppure disattendere le promesse fatte per seguire il bonum commune, nel qual caso avrà gabbato i cittadini e tradito così il significato stesso di democrazia, oltre a perdere il consenso.
Tertium non datur.
La democrazia è pertanto un male oggettivo per il popolo: essa trasforma una comunità nazionale in una maratona di interessi privati e sostituisce il bene di tutti con l'insieme degli interessi privati della metà dei cittadini.
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A Paolo

Di Paolo non riesco a ricordare un'immagine che non sia gioiosa.
I gruppi di studio, quando spiegava a noi bambini quel sogno che inseguiva così tenacemente, e più che le parole ci affascinava lo sguardo consapevole, sereno, stracolmo di sogni.
Ricordo un'affissione che feci con lui non meno di sei anni fa. Sulla sua macchina scassata avremo attaccato centinaia di manifesti perche' non riuscivamo a passare di fronte a un bandone senza che ci si fermasse di fronte. Siamo stati una delle ultimissime squadre a finire, quel giorno.
Di Paolo ricordo soprattutto il colore degli occhi, quel colore così profondo, così pulito, così sereno da lasciarmi incredulo ogni volta. Pareva sempre che dicessero: "dimmi, riesci a sentire anche tu un po' di quello che sento io?"
Aveva un cuore immenso, Paolo, e conosceva Dio.
Glielo si leggeva in volto, lo si capiva dalla gioja inumana con cui faceva ogni cosa, si palpava dalla sua forza instancabile, dalla fierezza che lo rendeva così unico, così profondamente diverso da tutti noi...
Vorrei essere come te, Paolo.
Vorrei saper donare anch'io ogni molecola del mio corpo, ogni goccia del mio sangue, ogni minuto della mia vita, a lodare Dio con il fare, il costruire, con la meravigliosa operosità dell'umile servitore, troppo impegnato a spegnere incendi, a raccogliere rifiuti, a sognare un altro mondo per avere il tempo di interessarsi a se stesso.
Vorrei tanto essere come te, Paolo.
Vorrei sapermi dimenticare delle piccole bassezze che mi tengono così gravemente legato a terra, per consumare me stesso al totale servizio degli altri, per trasformarmi interamente nel servitore del prossimo che dovrebbe essere chi crede in Cristo.
Tu, come Gesù, sei volato via di Venerdì Santo.
Ti ha voluto con sé, il Signore, perché glorificassi con la tua presenza oltre la terra anche il cielo.
A noi non resta che asciugare le lacrime, rimettere il fagotto sulle spalle e riprendere il cammino, badando bene ad accudire nel cuore ciò che di più bello ci hai insegnato, con l'esempio, ogni giorno della tua splendida vita: amare il prossimo, e quindi Dio, fino al sacrificio di sé.
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